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I Furlani della Gondola di Italo Zannier A Venezia, dare del “furlan” a qualcuno, è quasi un’offesa; ma i friulani, invece, sono generosi e non taccagni, semmai parsimoniosi. E lavoratori. I friulani sono “bravi”, anche come fotografi! Nella cronistoria della fotografia italiana, soprattutto dell’ultimo dopoguerra, in Friuli si accese un fertile dibattito sulla fotografia, nel superamento del pittorialismo folclorista (Bujatti, Brisighelli...), e verso il neorealismo , che non era soltanto una moda, ma un’esigenza di conoscenza, di documentazione e di denuncia sociologica, che nel contempo era stata avviata da scrittori come Bartolini e Pasolini e da pittori come Zigaina, Anzil, Canci, Altieri. Questi intellettuali furono un punto di riferimento anche per i “nuovi” fotografi armati d’entusiasmo e spesso – fortunatamente, in quanto più “semplice” -, di una modesta camera fotografica, sufficiente, anzi, favorevole a quel minimalismo anche tecnico, per fissare immagini che sono tuttora emblematiche di una condizione di vita, come schede segnaletiche. Immagini controcorrente, rispetto alle languide cartoline di nostalgici paesaggi e di improbabili scenette paesane, che avevano fatto troppo lungamente il verso illustrativo alle poesie di Pietro Zorutti o alle retoriche declamazioni sulla “piccola patria”, di un letterato come Chino Ermacora, l’ultimo guru della friulanità contadina, prima degli aggiornamenti populisti dei Turoldo o degli Sgorlon. I fotografi “furlani” si attivarono giovanilmente, secondo un’ideologica scomoda allora, che venne subito tacciata di “sinistrismo”, e invece era un sincero, perfino ingenuo approccio al medium fotografico, che pretendeva nuovi slanci culturali, come nel frattempo si scopriva nelle pubblicazioni internazionali, in primis la mitica “Camera” di Romeo Martinez, che a Venezia (dove a lungo collaborò con “La Gondola” e soprattutto con Monti e Giacobbi), raggiungeva volentieri i nostri borghi pedemontani. I “nuovi” fotografi friulani, affrontarono i temi del territorio – a volte recuperando inconsciamente gli schemi realisti della F.S.A. – quasi catalogando case, persone, cose; denunciandone soprattutto la situazione di abbandono e di miseria, cercando di correggere l’idea di una vita contadina felice e allegra come risultava dalle vecchie villotte folcloristiche. Poi, questi fotografi, organizzarono rassegne d’avanguardia e infine costituirono un Gruppo (nel 1955 il “Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia”, che nel suo “manifesto” azzardò perfino di essere tra i promotori dell’”inserimento del Friuli nella cultura italiana, durante il rinnovamento generale del dopoguerra”). Chiamarono gli amici che avevano le stesse idee, a Venezia e a Bologna: Roiter, Del Tin, Berengo Gardin, Bepi Bruno, Nino Migliori, Luciano Ferri..., e Carlo Bevilacqua, il magistrale anziano del gruppo, che fu tra i fondatori del sodalizio. Alcuni di questi fotografi (non tutti erano “amatori”, ma già passati al professionismo: i due Borghesan, Roiter, Zannier) appartenevano al Circolo “La Gondola”, dove rappresentavano, per certi aspetti, la frangia di “sinistra”, come si etichettava allora la tendenza neorealista, ch’era in contrasto ideologico (ma non soltanto politico) con i cosiddetti “formalisti”, al seguito del Gruppo “La Bussola” di Cavalli, Finazzi, Vender, Leiss, Veronesi (1947). Il Circolo “La Gondola”, nacque anche da quell’impulso culturale – la dialettica tra i realisti ed estetisti – per merito soprattutto di Paolo Monti, che con Bolognini, Scattola, Bresciani ne fu il fondatore; il Circolo apparve subito come un luogo di più ampio dibattito, meno integralista, semmai mediatore, come emerse dal cosiddetto “realismo lirico” di alcuni autori, Roiter in particolare. Citandomi attraverso un transfert di Giuseppe Turroni (crf. Giuseppe Turroni, Nuova Fotografia Italiana Schwarz. Milano, 1959, p. 57, nel 1958 (ossia circa dieci anni dopo la fondazione del Circolo), osservai come ai fotografi della Gondola andasse “l’onerosa eredità dei passati successi, di una serietà e di un rigore culturale alquanto rari”. Tutto vero: lì molti fotografi tuttora emergenti, avevano trovato un terreno adatto alla loro libertà creativa, aprendosi alla grande fotografia internazionale, basti ricordare ancora Roiter o Berengo Gardin. “La Gondola” come ambiente, e Paolo Monti come maestro, furono una straordinaria Scuola per la giovane fotografia italiana, soprattutto tra la fine degli anno Quaranta e gli anni Sessanta, una scuola che insiste anche in esperienze più recenti, che ne hanno rivitalizzato la funzione. Che è anche quella “memoria” storica, ora finalmente concretizzata nel grane archivio curato con passione dal presidente Manfredo Manfroi, dove è oltretutto possibile ritrovare un’immagine globale, non soltanto de “La Gondola”, relativa al dopoguerra fotografico italiano. Da questo archivio emergono ora alcuni autori, assemblati in questa rassegna, non soltanto per la storica appartenenza al Circolo “La Gondola” negli anni Cinquanta, ma per la loro origine “furlana”, che è anche la mia, ed è forse per ciò che sono stato chiamato a scrivere, come testimone, queste poche righe. Il lirismo grafico e l’accento populista – a volte con allusioni aneddotiche di origine cinematografica – caratterizza Carlo Bevilacqua anche in questa breve serie di luminose immagini, che segnalano oltretutto la sua “mediterraneità”, uno “stile” che nel dopoguerra caratterizzò la nostra fotografia a livello internazionale, soprattutto mediante l’high – key di Giuseppe Cavalli o Gualberto Davolio Marani. Elio Ciol, figlio d’arte a Casarsa sperimentava la tecnica dell’infrarosso, alla ricerca di un’immagine del paesaggio più misteriosa e persino metafisica, comunque di un chiaroscuro spettacolare, con un afflato di intensa religiosità. A Casarsa ha vissuto per alcuni anni anche Bruno Bruni, fino al 1945, quando si trasferì a Venezia; durante la permanenza a Casarsa s’era però impegnato, anziché nella fotografia, nella poesia, con il sublime Pasolini, assieme al quale fondò la leggendaria “Academiuta di lenga furlana”. Nella rivista di questo organismo antiaccademico – “Il stroligut” dell’agosto 1945 -, Bruni pubblicò anche un’ardente poesia: “Discors tra un fantat e na suvita” (Discorso tra un ragazzo e una civetta): “Parsé lontan qel sigu?./ Diu! Dolour tal sanc! (Perché lontano quel grido?/ Dio! Dolore nel sangue!). E la civetta rispondeva: “Ahaha! I vui a son sieras, / la to vous a mour / tai camps la sera.” (“Ahaha! Gli occhi sono chiusi, / la tua voce muore / nei campi la sera.”). Bruni, giunto a Venezia, passò alla fotografia e qualche anno dopo trovò ne “La Gondola” un luogo fertile per prolungare e trasferire la sua poesia nell’immagine; un talento, quello di Bruno Bruni, troppo presto dimenticato, ma ora finalmente riproposto. Il quarto autore di questa rassegna è Ennio Puntin, che credo di aver conosciuto, sia pure in fretta, negli anni d’architettura; è noto soprattutto per i suoi ritratti, anche in sequenza, su certi modelli, e per lo più annegati, quasi scontornati nel nero dello sfondo; ritratti intensi, sospesi nello spazio geometrico della composizione, che allude ad atmosfere metafisiche, al di là delle formule post – neorealistiche, seguendo semmai i modelli francesi, Masclet innanzitutto. Credo che l’archivio Puntin sia però ricco di altre sorprese, anche nella fotografia di paesaggio e di architettura; vorrei vederle. Paolo Monti, se fosse qui a presentare questa mostra, ripeterebbe probabilmente quanto ha scritto nella prefazione del primo volume sul sodalizio: questa è un’ulteriore occasione, disse, “per ricostruire un tempo perduto: quello dei primi anni successivi alla guerra, quando le nostre attese e le nostre speranze erano acutissime e incoraggiate da una vita nuova piena di scoperte e di possibilità future”. Lignano Pineta, 5 aprile 2002 Tutti i diritti riservati |
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