la Gondola

Bruno Bruni

da Pier Paolo Pasolini allla "Gondola"

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Bruno Bruni, Pasolini e Il Circolo La Gondola.

Lezioni d’arte, di cultura e di vita.  

Attraverso le fotografie di questa mostra è possibile riandare, in senso traslato, alla stagione più dolorosa del Paese, il secondo conflitto mondiale, e in quella le ansie, le aspirazioni e gli ideali di un’intera generazione a cui Bruno Bruni appartenne.

C’è un plus-valore in queste fotografie che non si manifesterebbe appieno se non si ritornasse con la memoria al periodo in cui l’Autore visse a Casarsa, dal 1936 al 1950, gli anni fertili dell’infanzia e dell’adolescenza certamente segnati dalla guerra ma anche dall’incontro con Pier Paolo Pasolini.

Le ragioni di quest’incontro sono presto dette; durante la guerra Casarsa, importante snodo ferroviario, era sottoposta a continui bombardamenti soprattutto lungo la linea che portava a Udine.

Gli studenti del posto furono ben presto impossibilitati a raggiungere il capoluogo dove c’era il liceo classico Stellini; fu così che Pasolini, all’epoca neanche ventenne, assieme ad altri studiosi, aprì una scuola privata a San Giovanni, una frazione di Casarsa dove s’insegnavano le materie classiche e anche l’inglese.

Il rapporto fra gli allievi e Pasolini divenne ben presto un sodalizio educativo. Colpiva soprattutto il suo metodo d’insegnamento, assai lontano dai percorsi tradizionali basati sulle date e sugli eventi; di un argomento venivano presi in considerazione tutti gli aspetti – letterario, storico, sociale, economico - stimolando poi lo studente ad una ricerca che avvalorasse le tesi proposte.

Ognuno portava il proprio contributo su cui poi era impostata una discussione finale; gradualmente e senza sforzo alcuno venivano annullate le distanze tra docenti ed allievi dando vita ad un gruppo omogeneo cementato dall’entusiasmo e dalla volontà di apprendere ed approfondire.

Pasolini stimolava anche l’osservazione delle cose.

Spiegò Bruni (1): “ (Pasolini)..c’insegnò a addestrare lo sguardo, a vedere le cose al di là delle cose cioè a cercare di vedere oltre la superficie, farsi un’idea propria, trasformare una cosa in una nostra creazione.

Cosa distingue un artista da un altro? Tutti vedono le stesse cose; tutti vedono un termosifone ma se io sono un artista lo trasformo e lo faccio diventare cosa mia, se sono pittore lo dipingerò in un certo modo, se sono un fotografo lo fotograferò in un altro modo, se sono un poeta scriverò di quella cosa in un altro modo ancora.

Ognuno esprime la sua personalità e il suo modo di vedere e di sentire.

Questa era la lezione che ci dava Pier Paolo”.

Queste modalità didattiche portarono a frutti concreti come l’ “Academiuta di Lenga Furlana” fondata nel 1945, che si prefiggeva di dare nobiltà di lingua al dialetto friulano. Nell’atto di costituzione furono precisate alcune regole grammaticali ed ortografiche e in seguito fu pubblicata una rivista “Il stroligut” (piccolo astrologo) che raccolse i primi tentativi in prosa e in poesia dei partecipanti, tra i quali naturalmente Bruni.

La vicenda dell’”Academiuta” come pure quella del gruppo dei ragazzi di Casarsa durò fino al 1947 circa; poi ognuno prese la propria strada.

Bruno Bruni si trasferì a Venezia con la famiglia nel 1950; l’ambiente veneziano del dopoguerra era radicalmente diverso da quello della provincia friulana.

Durante la guerra Venezia aveva goduto di una tacita immunità che l’aveva risparmiata dai bombardamenti; oltre a salvarne l’entità fisica, quest’immunità aveva consentito ad una miriade di artisti e intellettuali di attendervi la fine del conflitto.

Il dopoguerra, sia pure fra restrizioni e sacrifici, era stato perciò meno doloroso che altrove e anche sul piano dell’arte e della cultura la ripresa era stata quasi istantanea.

Vero simbolo della rinascita e della riacquisita libertà espressiva fu, nel 1948, la XXIV^ edizione della Biennale curata da Rodolfo Pallucchini affiancato da un eccezionale parterre di collaboratori.

Fu l’occasione non solo per riassumere tutte le tendenze dell’arte ma per evidenziare i nuovi movimenti, quale il Fronte Nuovo delle Arti, che prepotentemente si affacciavano nell’ambito della discussione critica.

Anche la fotografia sentiva, seppure a modo suo, i fermenti della nuova epoca.

Nel 1947 il Gruppo La Bussola di Senigallia aveva rivendicato, attraverso un Manifesto pubblicato sulla rivista Ferrania, l’autonomia della fotografia da ogni altra disciplina figurativa; ciò aveva impressionato un gruppetto di appassionati che si riuniva in Piazza San Marco, nel negozio “FotoRecord” dei fratelli armeni Pambakian.

Vero dominus di questo gruppo era un intellettuale e fotografo di rare qualità, Paolo Monti; sotto la sua guida, e stimolato dalla pubblicazione del Manifesto, il gruppo si costituì in Circolo dandosi il veneziano nome de “la Gondola”.

In breve il sodalizio, grazie ad un’eccezionale fioritura di talenti – lo stesso Monti, Fulvio Roiter, Giorgio Giacobbi, Gino Bolognini e poco dopo Gianni Berengo Gardin, Giuseppe Bepi Bruno, Sergio Del Pero, Elio Ciol – acquistò meritata fama in Italia e all’estero dove fu riconosciuto come “l’école de Venise”.

L’approccio di Bruni con la fotografia risaliva agli anni casarsesi, più precisamente all’amicizia con Elio Ciol il cui padre aveva un laboratorio professionale; ma certamente lo aveva aiutato l’eclettismo di Pasolini e la saltuaria frequentazione di un cineclub a San Vito al Tagliamento dove ebbe l’occasione di vedere alcuni film di Eisenstein dei quali Pasolini aveva posto in luce l’accuratezza della composizione fotografica, il cosiddetto “montaggio interno” del fotogramma.

Venuto ad abitare nel centro storico veneziano, Bruni acquistò una piccola Kodak 35 mm con la quale si mise a confronto con l’inevitabile bellezza della città.

Qualche tempo dopo incontrò Carlo Mantovani, uno dei migliori e più attivi soci della Gondola di quei tempi; fu così che Bruni entrò Circolo, nel momento del suo maggior fulgore.

Il dibattito critico del sodalizio non aveva molto a che vedere con l’educazione “globale” pasoliniana; Monti era andato a Milano a fare il professionista e di conseguenza si era di molto attenuata la sollecitazione, da lui provocata, al confronto e alla misura con le altre discipline figurative e più in generale con la cultura.

Raccontò Bruni (2): “ Una delle cose che non mi andava della Gondola era che non si parlasse di cultura, cioè si parlava di fotografia, si discuteva di fotografia ma non di cinema, di letteratura, di arte; si girava sempre attorno al campetto della fotografia.

Venendo fresco dall’esperienza con Pasolini io cercavo di allargare il campo, ma senza grande successo”.

Ciononostante, Bruni s’inserì senza molte difficoltà nell’ambiente anche sotto l’aspetto produttivo; dall’amico Ciol acquistò di seconda mano una pregevole Rolleicord, attrezzò, com’era d’obbligo, una piccola camera oscura e poté dunque cimentarsi con gli altri soci anche sul piano strettamente tecnico.

Cominciarono ad arrivare i primi riconoscimenti nei concorsi che assieme alle mostre erano l’inevitabile sbocco dell’attività; fu segnalato nell’importantissimo contest americano “Popular Photography”, in cui l’amico Ciol si era affermato per ben tre volte, ma soprattutto partecipò alle mostre che in quegli anni erano particolarmente seguite.

Sotto la presidenza di Giorgio Giacobbi, subentrato dopo un breve interregno di Bolognini alla guida del Circolo, la Gondola si era cimentata nelle grandi rassegne che avevano portato a Venezia la migliore fotografia internazionale, in larga parte ancora sconosciuta.

A questa prestigiosa vetrina il Circolo partecipava in prima persona; di grande rilevanza anche le sedi espositive: l’Ala Napoleonica del Museo Correr, lo spazio della Bevilacqua La Masa, la Sala delle Colonne a Cà Giustinian tutte gravitanti nell’area marciana.

Questo fervore si rifletteva anche sull’attività dei soci; Bruni, assunta nel frattempo la carica di segretario del Circolo, non aveva però dimenticato né gli orientamenti pasoliniani e nemmeno le sue origini friulane.

Val la pena di ricordare che la Gondola, sin dalla fondazione, aveva avuto come soggetto prediletto, né poteva essere altrimenti, la città lagunare contribuendo ad abbattere gli stereotipi illustrativi che sino allora ne avevano diffuso un’immagine oleografica, talvolta inattendibile.

La Venezia di Monti, di Roiter, di Berengo e degli altri era del tutto nuova rispetto alla tradizione e portava in superficie una città “minore” ricca di umanità ma anche di una sostanza architettonica del tutto inesplorata.

Al contrario degli altri la fotografia di Bruni si soffermò spesso sull’amata pianura friulana la cui ininterrotta linearità era accompagnata da pochi elementi che fungevano da contrappunto visivo: gli alberi, qualche macchia di vegetazione, talvolta semplici fili d’erba.

Anche il mondo dell’infanzia, altro grande tema della fotografia amatoriale, era visto con occhi sostanzialmente diversi; Bruni rifuggì dallo stereotipo consolatorio allora imperante per dare conto di un’infanzia semplice e spontanea, descritta attraverso un “neorealismo” non lacero e compassionevole ma dignitoso nella sua povertà.

Molte di queste immagini sono presenti nella mostra; accanto ai soggetti merita di essere considerata anche la loro costruzione. In esse, per stessa ammissione di Bruni, la lezione di Pasolini è evidente(3): “…(Pasolini) ci diceva che era importantissimo, quando si guarda un paesaggio o un gruppo di persone, isolare un particolare cioè puntare su un elemento che sia preminente sugli altri in senso visivo e guardare a questo punto di riferimento non per fotografare solo quello ma per metterlo in composizione con tutto il resto”.

E’ quanto sostenne diversi anni dopo (1980) Roland Barthes nel suo celeberrimo saggio “La camera chiara”: “ In questo spazio ( della fotografia ndr) quasi sempre “unario”, io sono talvolta attratto (ma ahimé, raramente) da un particolare. Io sento che la sua sola presenza modifica la mia lettura, che quella che sto guardando è una nuova foto, contrassegnata ai miei occhi da un valore superiore. Questo “particolare” è il punctum (cioè che mi punge)” (4).

Se nella tesi di Barthes è prevalente l’azione soggettiva nella scelta del punctum, si deve riconoscere a Pasolini, non strettamente uomo di fotografia ma inarrivabile uomo d’arte e di sapere, di esser giunto con largo anticipo a identificare uno dei leit-motiv fondamentali della critica fotografica contemporanea.

Nelle immagini di Bruni si può notare come l’andamento compositivo non sia frutto di un virtuosismo fine a se stesso ma risponda ad un preciso disegno creativo teso a valorizzare in egual misura forma e sostanza. Non inganni l’apparente semplicità delle costruzioni; essa è il risultato di un accurato processo mentale che bada soprattutto a rendere il messaggio immediato ed efficace avvalendosi di pochi essenziali elementi.

La vicenda fotografica di Bruni si concluse, come per molti altri talenti della Gondola, allorché egli dovette decidere fra la passione e la vita, la famiglia e il lavoro.

Decise per l’insegnamento e nel 1961 troncò di netto con la fotografia; oggi queste immagini, ancorché frutto di un impegno relativamente breve, sono qui a testimoniarci una stagione, sua e nostra, ribollente d’arte, d’impegno e di passione civile maturata in ambienti, per molte ragioni, eccezionali e del tutto irripetibili.

Una stagione alla quale guardiamo con nostalgia e una punta di rimpianto. 

Manfredo Manfroi

Venezia 23 maggio 2009

(1)  Intervista di Manfredo Manfroi a Bruno Bruni – Venezia 19.4.1996.

(2)  Ibidem

(3)  Ibidem

(4)  Roland Barthes “La Camera Chiara” Giulio Einaudi ed. 1980 – pag. 43.


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