La Mestre di Del Pero:

fra documento e poesia 

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Riaffiorano dopo quasi mezzo secolo queste immagini di Sergio Del Pero tratte dall’ingente “corpus” di negativi che assieme a più di tremila stampe costituiscono il fondo donato dalla vedova al Circolo Fotografico La Gondola dodici anni fa.

Si tratta, tranne qualche eccezione, di inediti assoluti cioè fotografie per la prima volta stampate in grande formato; a suo tempo l’Autore non le ritenne meritevoli di essere presentate ai concorsi, principale ambizione della sua passione fotografica.

Una vicenda, quella di Del Pero, piuttosto originale che s’interseca con la storia recente delle due anime della città, il centro storico e la terraferma; artigiano ebanista formatosi all’Istituto d’Arte dei Carmini a Venezia, non volle intraprendere la via del professionismo come altri della Gondola osarono fare: Paolo Monti, Berengo Gardin, l’amico Bepi Bruno, Fulvio Roiter.  Probabilmente, gli mancò il coraggio di avviarsi in un’attività densa d’incognite e d’imprevisti nella precarietà del dopoguerra mentre era in corso la ricostruzione fisica e morale del Paese.

E tuttavia la sua storia personale – muranese di nascita ma trasferito nel 1933 a Mestre quando questa era poco più che un borgo rurale – gli consentì d’essere testimone delle grandi trasformazioni della terraferma cosiccome di annotare con accenti nostalgici l’incipiente declino del centro storico.

Un’opera lunga e minuziosa che si protrasse nel tempo attraverso una miriade di scatti di cui, come dicevo, solo una minima parte fu stampata non già per documentare o, come si direbbe oggi, per “denunciare” situazioni che con il passare degli anni sarebbero divenute emblematiche, ma per potersi affermare nei concorsi fotografici amatoriali dove l’interesse per il “bello” prevaleva su qualsiasi finalità sociale.

Questo contrasto fra la fotografia amatoriale disimpegnata da qualsiasi osservazione sociologica e il fotoreportage che in Italia prendeva finalmente sostanza dopo la parentesi fascista, costituì per lungo tempo un ostacolo quasi insormontabile per riunire in un unico agire le varie anime della fotografia.

Sergio Del Pero costituì senza dubbio un’eccezione, ancorché la sua fotografia abbracciasse più generi – reportage, still-life, ritratto, paesaggio – facendone uno degli autori più versatili e completi del panorama fotografico italiano.

Del tutto autodidatta e per sua stessa ammissione scarsamente a conoscenza dei movimenti e degli autori più significativi dell’epoca, Del Pero si accostò alla Gondola a metà degli anni ‘50, quando questa era all’apice della sua fortuna.

L’indirizzo che Monti aveva dato al Circolo e l’influenza delle correnti europee più innovative – la Subjective Fotografie del dottor Steinert e la fotografia umanista francese dei Doisneau, Izis, Ronis - avevano originato una produzione felicemente definita lirico-realista che con ferrea ortodossia tecnica e compositiva affondava le radici, né poteva essere altrimenti, nella realtà lagunare.

Le nuove versioni della città d’acqua diffusa dai volumi di Roiter ( Venise a fleur d’eau), di Berengo (Venise des saisons) ma anche l’osservazione degli altri della Gondola si allontanavano dall’iconografia tradizionale perpetuata dagli ateliers dell’’800 pur conservando i tratti romantici e accattivanti della città dai quali sembrava non si potesse prescindere.

Del Pero portò nel Circolo sostanziali novità stilistiche – un bianco e nero secco senza passaggi tonali – ma soprattutto una visione che si allontanava dal sublime e dalla versione positiva e moraleggiante della vita, punto forte della fotografia amatoriale.

Predilesse le situazioni più banali - il “quotidiano” vissuto sommessamente, tanto raccomandato da Cesare Zavattini - descritte con una vena malinconica e pessimista trascurando del tutto il virtuosismo del “momento decisivo” caro a Cartier-Bresson e ai suoi più celebri epigoni.

La fotografia di Del Pero precorreva i tempi e non fu subito apprezzata; solo l’avvento dell’astro Mario Giacomelli, a lui così vicino nello stile e nelle scelte tematiche, gli aprì le porte del consenso amatoriale.

Per converso, rimase nascosta e poco valutata tutta l’osservazione sui cambiamenti che tumultuosamente segnavano la città, soprattutto di terraferma.

In largo anticipo sulle tematiche oggi ricorrenti – l’inurbamento selvaggio, l’inquinamento – Del Pero colse con acuta sensibilità il travaglio di una generazione che uscita dalle sofferenze di un conflitto disastroso, barattava la vita grama e incerta delle campagne con la certezza di un lavoro in fabbrica o si allontanava dal sovraffollamento del centro storico sognando quattro mura asciutte e il gabinetto fuori della cucina.

In pari tempo Del Pero avvertiva l’incombente minaccia dell’inquinamento che una dissennata politica industriale stava riversando senza scrupolo alcuno al ridosso delle abitazioni.

Al centro della fotografia di Del Pero c’è comunque la condizione umana con le sue alterne vicende; i protagonisti non sono gli “eroi” di Capa o di Eugène Smith ma gente comune - bambini, operai, semplici cittadini - alle prese con una realtà spesso ingrata fatta di fango e di cemento, avvolta dal fumo delle fabbriche o percorsa dalle schiume velenose delle discariche.

Oggi che i problemi di allora sono giunti al pettine, queste fotografie ripropongono con immutata forza la drammaticità di quell’ammonimento che cogliamo in tutte le loro profondità e sbalorditiva preveggenza, ma al tempo stesso non possiamo non commuoverci di fronte ai quei veneziani di allora, a quei bambini nei cui occhi leggiamo la speranza in un futuro migliore, a quei cittadini che si attendevano quale premio della loro alacrità e del loro sacrificio stabili condizioni di lavoro e una città vivibile.

Siamo, a quarant’anni di distanza, nella condizione ideale per riflettere su tutto questo, su quanto si poteva fare e non è stato fatto e su quanto è stato fatto e si sarebbe potuto fare meglio. Le immagini di Del Pero sono lì, paragone ineludibile, a rammentarci come eravamo e a darci nuova forza e nuova speranza.

Manfredo Manfroi

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