Lensless ?
La forma interrogativa è d’obbligo: c’è una
effettiva e concreta ragione per fotografare con uno stenopeico (e
cioè senza l’obiettivo o, meglio, le lenti) invece che con una
normale macchina fotografica, analogica o digitale che sia?
Una delle risposte più comuni a questa domanda fa espresso
riferimento alla c.d. pratica stenopeica e cioè ad una sorta di “
rito “, variamente identificato (senza voler esser esaustivi) con la
particolarità della macchina utilizzata, dalla pretesa
anti-tecnologicità del mezzo, da un situazione di lentezza nel
fotografare in opposizione ad una velocità nell’ordinario mezzo
usato (soprattutto se digitale), alla necessità di operare con un
processo manuale di ripresa complicato e laborioso, ecc.
Pochi riflettono - prima di tutto - sulla struttura tecnologica di
una macchina stenopeica e assolutamente nessuno mette in rilievo
come lo stenopeico (intendo il solo foro) abbia una propria
caratterizzazione prima naturale e poi simbolica.
In fondo si tratta solo di un piccolissimo buco analogo a tanti
altri esistenti in natura o artificialmente creati: da quelli nelle
rocce a quello della serratura.
Ma, nella pratica sociale, “guardare dal buco“ ha un preciso
significato voyeuristico , del tutto analogo a quello individuato da
certa saggistica in relazione all’atto fotografico: in fondo
guardare nel mirino della macchina fotografica è spiare qualcosa o
qualcuno, esercitare un controllo o interferire sul mondo
circostante.
Ma chi utilizza questo infinitesimale foro sa che questo passaggio
(guardare attraverso il buco) è totalmente assente: per definizione
(e per concreta applicazione pratica) la macchina è senza mirino e
nel foro non si guarda dentro.
Si può applicare una sorta di mirino alla macchina (un pezzo di
ferro rettangolare o quadrato ben studiato in relazione alla focale)
ma non si ottiene il medesimo risultato in quanto serve, al
massimo, solo per delimitare approssimativamente i confini
dell’immagine.
Per cui, alla fine, il fotografo stenopeico è un sorta di voyeur
senza limiti nel senso che deve guardare tutto quanto sta davanti
alla macchina e nello stesso tempo non vede nulla di quello che la
macchina (rectius: il foro) registra visivamente.
La situazione è curiosa, ma forse una delle (tante) possibilità
creative di questa pratica risiede proprio nella discrasia tra
quanto guardato e quanto visto.
Spesso il risultato finale non è quello immaginato o sperato (uso
questi termini con cognizione di causa).
L’immagine finale contiene, molte volte, più di quanto ci si
immaginasse anche se, spesso, ha molto meno di quanto si volesse:
un’ottima applicazione dell’inconscio tecnologico, secondo il
pensiero di Franco Vaccari.
E ciò con buona pace di tutti coloro che credono nella assoluta e
perfetta previsualizzazione dell’immagine: concetto ora ancor più
smentito dalle fotocamere digitali (quanto meno quelle compatte in
uso alla maggior parte del popolo fotografico) nelle quali “si
guarda e si vede“ direttamente in un piccolo schermo ma, in
concreto, non si pre-visualizza alcunché in quanto l’immagine è in
movimento e non ferma; in sintesi, si post-visualizza.
Il foro, applicato alla macchina, per l’assenza di una struttura di
mediazione (la lente) che dia forma compiuta (organizzazione) a
quanto c’è davanti a sé, risolve la realtà in una rappresentazione
simbolica ed oscura, dove il buio staziona in periferia e convoglia
la luce nell’area centrale dell’immagine.
L’assenza della mediazione dovuta dalla lente inibisce all’immagine
la fruizione di una serie di strutture formali - che ci si
attenderebbe ritrovare una normale fotografia - prima di tutto la
messa a fuoco.
E non solo: la prospettiva non è più quella del Brunelleschi,
l’ampiezza della focale non è più riconoscibile, le masse hanno
rapporti inconosciuti, le proporzioni delle cose all’interno
dell’immagine sono assolutamente incongrue, la riconoscibilità del
soggetto rasenta sovente il paradosso ed il senso di spaesamento è
fortemente marcato.
Tutto questo costituisce un punto di forza dell’immagine ottenuta e
l’analisi non può essere condotta con certi parametri estetici.
Ne consegue, alla fine, come questo particolare fotografo debba
trasferire le proprie capacità dal piano dalla visualizzazione (o
anche dalla pre o post-visualizzazione) a quello dell’empatia.
Il termine non viene detto a caso e significa individuazione
affettiva con altra persona e cosa e chiama subito una domanda:
quale poetica può perseguire - in tale situazione - questo
fotografo al momento dello scatto ?
L’esame del lavoro dei fotografi che hanno espongono il loro lavoro
nella rete (alla data attuale non vi sono che un centinaio di siti
) rivela una strenua ricerca di un c.d. spazio stenopeico.
Ogni fotografo è, in primo luogo, legato indissolubilmente al
particolare tipo di macchina usata: il più delle volte si tratta di
macchine auto-costruite (dalle lattine del caffé al lego, al legno,
tutto è convertibile in un efficiente strumento di ripresa ) ma ne
circolano anche di un’estrema raffinatezza estetica e tecnicamente
sofisticate.
La macchina condiziona i risultati non solo per quanto riguarda le
possibilità operative (difficile fotografare quanto le dimensioni
sono esagerate o quando il mezzo permette un solo scatto) ma anche
ogni strumento di ripresa ha un suo particolare modo ottimale di
ripresa che dipende da tante varianti: dal foro (dalle sue
dimensioni), dalla focale, dal tipo di supporto (negativo o carta).
Insomma, ogni macchina dotata di foro ha un proprio modus ottimale
di ripresa che l’utilizzatore deve prima riconoscere e poi
continuamente applicare.
E tale non è altro che il citato spazio stenopeico che, fisicamente,
può esser individuato tra il foro e la superficie della pellicola (o
della carta) , all’interno e non all’esterno della macchina.
Ciò può sembrare paradossale ma un esame anche superficiale di
tutte immagini eseguite con questa tecnica rivelano una
consequenzialità assoluta tra mezzo di ripresa e risultato: solo
con quella macchina è possibile avere quella particolare immagine,
non solo in termini di tono e di cromia, di campitura, di rapporto e
distribuzione delle masse.
Dopo l’individuazione di uno primo spazio meramente tecnico , ecco
che fa capolino un secondo spazio stenopeico, quello che appartiene
al fotografo ed attiene al suo rapporto-dialogo con il reale.
Dopo essersi proiettato dal foro alla superficie sensibile e ritorno
- all’interno della macchina da ripresa - lo spazio detta la propria
legge all’esterno, condizionando e percependo l’operatore nel suo
flusso di vita applicato alla fotografia.
Condizionare: il fotografo è assolutamente legato alla specifica
forma della visione stenopeica e non può prescindere da essa.
Percepire: tra foro e operatore vi è una reciproca influenza, il più
delle volte estremamente sottile; sembra quasi che una situazione
superficiale, un luogo inappropriato, una soluzione forzata non
siano gradite al foro che reagisce brutalmente negando ogni
risultato valido.
Per cui , qualcosa deve condurre il fotografo nell’individuazione
con lo spazio stenopeico : riecco l’empatia , la relazione affettiva
con l’altro da sé, sia essa persona o cosa o comunque realtà.
Ma, facendo un passo indietro, dobbiamo sempre pensare che non c’è
la lente e, quindi, alcuna mediazione vi è con il reale: il contatto
è diretto, quasi tattile.
E, per tale motivo, lo stenopeico sembra percepire (ancora questo
termine che sembra inappropriato per qualcosa che sembra meramente
tecnico) la realtà nella sua interezza e soprattutto, nell’assoluta
transitorietà.
Allo stenopeico il tempo come istante non interessa: non deve
confrontarsi con momenti decisivi veri o falsi che siano; capisce
l’assoluta equivalenza di qualunque momento rispetto ad un altro e
rivela lo stato delle cose, in una prospettiva assolutamente
simbolica; opera (a causa dei tempi di esposizione spesso molto
lunghi) in una situazione di tempo dilatato nella quale il passato
non è ancora passato ed il presente non è del tutto presente.
E, ancora, lo stenopeico percepisce la carica emotiva del fotografo
nei confronti della realtà e se ne appropria, caricando l’immagine
di un plusvalore spesso inatteso; fotografo e stenopeico diventano
un’unica entità .
Con questi riferimenti si possono capire le immagini stenopeiche
attuali: ma il discorso non sarebbe completo se non si facesse mente
locale a questa fotografia come ad una “fotografia dell’oscurità”.
Il nero catramoso accanto a bagliori accecanti, il tono basso, una
specie di tunnel visivo dato dalla caduta della luce verso i bordi
dell’immagine, i soggetti criptici e quelli che fanno pensare alla
morte, l’incertezza della visione, conferiscono una patina
misteriosa a queste icone segnate da qualità oniriche e magiche,
riconducibili ad un fitto dialogo con gli archetipi della nostra
memoria individuale o collettiva.
“Foro negletto“ secondo J. H. Wandell e “Crudele spazio stenopeico“
secondo Paolo Gioli e, come tutta “La Fotografia, per le sue due
origine extra-umane, al punto di congiunzione dell’arte e della
filosofia”, secondo Jean-Claude Lemagny.
Massimo Stefanutti
Lensless ?
Every photographer is bound, primarily and unshakably, to the
particular type of camera used: more often than not, it is a
home-made one (improvised from coffee tins, Lego, wood … almost
anything can be transformed into an effective camera) but there are
also others in circulation too, boasting stylish designs and
sophisticated technology.
The camera conditions the results, and not only in terms of the
operation potential (photos are tricky with either tiny or enormous
objects and are even trickier when the camera itself allows only one
shot), but also as every camera has its own particular optimum
shooting mode, which depends on numerous variants: the hole (its
dimensions), the focal length, the media used (negatives or paper),
etc.
In short, every camera with a hole has its own optimum mode, which
the user must first recognize and then apply constantly.
And this is none other than the aforesaid pinhole space which,
physically, can be identified as the space between the hole and the
surface of the film (or paper) inside, not outside, the camera.
This may seem paradoxical but even the most superficial examination
of all the pictures produced employing this technique reveal an
unfailing consequential link between the camera and the result: only
a pinhole camera can create that particular image type, not just in
terms of tone and colour shades, or background shading, but also as
regards ratio and distribution of the masses.
Once this first merely technical pinhole space has been identified,
a second one needs to be established: the space into which the
photographer fits, where his or her rapport/dialogue with reality is
played out.
After its journey though the hole to the sensitive surface and back
– inside the camera - the space outside dictates its own laws,
conditioning and perceiving the very essence of the photographer, as
it is applied to the art.
Conditioning because the photographer is completely bound by the
specific form of stenopeic vision and cannot exclude it from any
consideration of the matter.
Perceiving because there is a two-way relationship between the hole
and the photographer, which is often extremely subtle; it can
sometimes seem that a superficial situation, inappropriate location
or perhaps a strained arrangement is unwelcome by the hole, which
reacts brutally, refusing to produce any worthy results. This means
something is needed to guide the photographer towards a familiarity
with the pinhole space, which is where empathy comes in, that
emotional relationship with the other, be it person, object or
situation.
But let’s take a step back to remember that there is no lens, and
therefore no mediation with reality: the contact is direct, almost
tangible. And this is why a pinhole camera seems to perceive (again
the term may appear inappropriate for something that seems merely
technical) the realty as a whole and, above all, as a totally
temporary nature.
A pinhole camera is not concerned with time as an instant, does not
have to face moments of decision, however true or false they may be;
this kind of camera appreciates the absolute sameness of one moment
and the next and reveals the state of things, from a truly symbolic
perspective; it works (due to the often very lengthy exposure times)
in a situation in which time is stretched, where the past is not yet
the past and the present is not quite the present either.
Again, pinhole cameras perceive the emotional charge of the
photograph in relation to the circumstances and appropriate it,
giving the resulting pictures an often extra, unexpected bonus; the
photo and the pinhole camera become a single entity.
This information should help you understand today’s pinhole
pictures: but the discussion would not be complete without looking
at this form of photography as a form of “dark photography”.
Pitch black shadows alongside blinding lights, the depth of its
tones, a kind of visual tunnel generated by the light falling away
towards the picture’s edges, cryptic subjects, morbid themes, the
uncertainty of the vision: all these aspects lend a veneer of
mystery to these magical, dreamlike icons, intrinsically linked to
the archetypes of our individual or collective memory.
A case of a “Neglected Hole” for J. H. Wandell or the “Cruel Pinhole
Space”, according to Paolo Gioli, while Jean-Claude Lemagny declared
“Photography, thanks to its two extra-human origins, at the point of
conjunction between art and philosophy”.
Massimo Stefanutti
Venice, January 2006 |